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18 Luglio 2019

Appunti per costruire campagne efficaci sui diritti civili

di Dino Amenduni

1. L’Irlanda sceglie l’aborto

L’aborto in Irlanda è stato illegale per molto tempo in più rispetto ad altri stati europei in senso contrario (il referendum sull’aborto, in Italia, risale ad esempio al 1978) Non solo: nel 1983, grazie a un referendum, fu introdotto in Costituzione l’Ottavo emendamento, che considera un feto una persona, con gli stessi diritti di ogni cittadino, rendendo di fatto impraticabile dotarsi di una qualsiasi legge che permetta di abortire.

Il 25 maggio 2018 è stato però convocato un referendum sulla questione, e gli irlandesi (cittadini di una nazione considerata molto cattolica) hanno scelto il diritto all’aborto con uno schiacciante 66.4%. Cinque anni prima, sempre con un referendum, l’Irlanda aveva votato per le unioni civili tra persone dello stesso sesso (primo paese europeo a consentirlo).

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Cosa ha funzionato
Una campagna social coinvolgente e serrata, basata su alcuni elementi simbolici forti come ad esempio gli hashtag #RepealThe8th (“abroghiamo l’Ottavo emendamento”), #Together4Yes, l’hashtag ufficiale della campagna elettorale, insieme per il sì, o #hometovote, che faceva appello agli irlandesi che vivono all’estero affinché tornassero in patria per votare. Questo ha portato all’emersione di alcuni dati che lasciavano prefigurare la vittoria del sì già molte settimane prima del referendum del 2018, in particolare la scelta di 120mila irlandesi di pre-registrarsi alle liste elettorali, un dato enorme se si considera che i cittadini irlandesi sono circa 4,7 milioni. L’integrazione online-offline ha effettivamente funzionato.
L’esporsi di leader di rilievo a sostenere la causa, a prescindere dal loro credo politico. Il premier Leo Varadkar, leader del partito di centro-destra Fine Gael, under 40, di origini indiane, dichiaratamente gay, è stato il primo promotore del referendum sull’aborto. Varadkar ha sostenuto che servissero leggi più moderne per un Paese più moderno, che fermasse le donne irlandesi costrette a emigrare in un altro Paese per praticare l’aborto. L’assenza di una polarizzazione ideologica ha certamente favorito la campagna per il sì.
• Un elemento di contesto, attualità ed emotivo forte. Parte della campagna ha avuto il volto di Savita Haloppanavar, la donna che nel 2012, dopo essere stata ricoverata presso la clinica universitaria di Galway, è morta di setticemia perché le era stata negata la possibilità di effettuare l’interruzione della sua gravidanza. La famiglia di Savita ha ringraziato apertamente il popolo irlandese per il risultato del referendum.

Corollario non banale: i comitati per il no hanno usato tutte le tattiche a cui si è potuto assistere in questi anni, soprattutto in casi referendari come la Brexit o nella campagna elettorale negli Stati Uniti nel 2016 (come l’uso sistematico della disinformazione e l’utilizzo di bot), ma ciò non ha, di fatto, condizionato il risultato. 

2. #loveislove: la lunga marcia degli Stati Uniti verso i matrimoni egualitari

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In questo caso è più sensato raccontare la storia partendo dalla fine. La Corte Suprema degli Stati Uniti, in una sentenza storica del giugno 2015 ha di fatto “liberalizzato” i matrimoni tra persone dello stesso sesso in tutti gli stati USA (qui c’è un’infografica animata che racconta l’evoluzione del riconoscimento di questo diritto negli anni precedenti alla sentenza). La sentenza si riferiva a un caso specifico, cioè alla causa intentata da un cittadino americano, Jim Obergfell, contro lo stato dell’Ohio (in cui risiedeva) per ottenere il riconoscimento del titolo di ‘marito’ nel certificato di morte del suo consorte, John Arthur, morto di SLA.

È evidente che una sentenza di una Suprema Corte è condizionata in modo assai relativo da ciò che è accaduto prima a livello di comunicazione e di campagne, ma è altrettanto vero che la richiesta di Obergfell arriva a margine di anni di battaglie su questi temi ed è probabilmente ispirata da questi ultimi.

A Barack Obama, presidente degli Stati Uniti all’epoca, vanno riconosciuti due meriti.

1. Aver mantenuto la stessa posizione nel corso del tempo, anche quando i sondaggi non erano confortanti. Nel 2015, anno della decisione della Corte Suprema, il 55% dei cittadini americani erano favorevoli ai matrimoni egualitari e il 39% era contrario, ma basta tornare non troppo indietro nel tempo per vedere dati praticamente ribaltati. Nel 2001, infatti, solo il 35% degli americani era favore e il 57% era contrario. Il “sorpasso” dei favorevoli sui contrari è avvenuto non prima del 2011, cioè già tre anni dopo che Obama diventasse presidente degli Stati Uniti.
2. Aver veicolato, probabilmente per primo, uno slogan potentissimo, “Love is Love” (l’amore è amore), sostanzialmente inattaccabile a causa della sua universalità, inclusività e grazie allo spostamento del piano di interpretazione da un livello più razionale (i diritti) a un livello più emotivo (l’amore).

Sintesi: cosa serve a una campagna sui diritti per essere efficace

1. Tempo: sia in Irlanda sia negli Stati Uniti appare evidente che il percorso che ha portato al risultato finale è stato lungo e tortuoso, e ha richiesto grande perseveranza. Cercare di far saltare il banco con azioni estemporanee è assai pericoloso e può portare a buchi nell’acqua che rendono assai più complicato il raggiungimento dell’obiettivo.

2. Inclusività: la tentazione di trasformare le campagne sui diritti civili in guerre ideologiche è naturalmente assai forte. Dividere il mondo in buoni e cattivi è in fondo ciò che, da sempre, fanno le forze politiche che provano a lavorare sulla riduzione dei diritti: la tentazione di restituire questo attacco con un contrattacco uguale e contrario è persino naturale. Ma non funziona. Tanto in Irlanda quanto negli Stati Uniti abbiamo assistito, pur con modalità ovviamente differenti, allo stesso comune tentativo di disarticolare il fronte politico/ideologico classico per cercare maggioranze “sociali”. Tanto Varadkar, che convoca il referendum sull’aborto “da destra”, quanto Obama che si mette alla testa di questo movimento andando di fatto contro i propri interessi elettorali dimostrano che le loro battaglie vanno molto al di là del piantare una bandierina nel proprio campo di gioco.

3. Il raziocinio va bene ma non basta: il caso irlandese è da questo punto di vista eclatante, ma anche in Italia abbiamo assistito a qualcosa di simile qualche mese fa. Il gesto eroico di Rami e Adam, i due studenti figli di genitori stranieri, appena adolescenti, che hanno sventato un attentato a marzo ha portato il dato di gradimento sullo ius soli a livelli che non si raggiungevano da anni. Una campagna lunga e inclusiva richiede perseveranza, una narrazione informata e a prova di controinformazione, ma anche la capacità di cogliere eventuali picchi favorevoli legati a specifiche dinamiche di attualità.

4. Creatività positiva: sia in Irlanda sia negli Stati Uniti abbiamo assistito a operazioni “ispirate” da messaggi connotati positivamente. Together 4 Yes, così come Love is Love, non citano l’avversario nemmeno in maniera simbolica; chiedono piuttosto ai cittadini di entrare nel proprio campo. Rinunciare all’utilizzo di rabbia, paura, emozioni primarie negative per attivare una reazione della popolazione aumenta il livello di fatica (e riduce il numero di strumenti e retoriche a disposizione nel corso di una campagna), ma sembra essere la strada giusta. Il mitico referendum cileno del 1988, quando fu battuto Pinochet con una campagna “indie”, chiaramente senza social visti i tempi, e con un messaggio che ruotava attorno all’allegria (quando sarebbe apparso più intuitivo mettere in luce le atrocità di un regime), continua a essere un’impareggiabile fonte d’ispirazione da questo punto di vista.

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