CONDIVIDI:
3 Marzo 2020

Cosa fare per migliorare il dibattito pubblico?

di Dino Amenduni

QUATTRO PERCORSI DI LAVORO PER CONTRIBUIRE A MIGLIORARE LA QUALITÀ DEL DIBATTITO PUBBLICO Slide di Dino Amenduni.

Non c’è motivo di credere che il 2017 sarà un anno più semplice rispetto a quello appena trascorso in merito alla qualità del dibattito pubblico e alla salute dei processi democratici. Alcuni dati di ricerche recenti, in realtà, invitano a un pessimismo ancora maggiore.

1. La fiducia nei media negli Stati Uniti non è mai stata così bassa negli ultimi 20 anni.

solo un americano su tre ritiene che i mezzi di comunicazione di massa riportino le notizie in modo attendibile, accurato e imparziale (Gallup). Il dato scende al 26% tra gli under 50 e addirittura al 14% tra gli elettori repubblicani. Nel 2005 la fiducia degli americani nell’informazione tradizionale era al 50%. La fiducia nei giornalisti nel Regno Unito è al 24%.

Il titolo della ricerca di cui fa parte quest’ultima rilevazione è eloquente: Enough of Experts?. Come si è arrivati a questo punto? Cosa può fare il giornalismo per recuperare la sua autorevolezza? C’è ancora bisogno della mediazione giornalistica per distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è? (risposta all’ultima domanda: io penso di sì).

2. In Italia continuano a esserci distorsioni strutturali di percezione rispetto ad alcuni fenomeni sociali di rilevanza generale.

Ii cittadini italiani ritengono che nel 2020 la popolazione del nostro paese sarà composta al 31% di musulmani. La stima reale è invece del 4.9%. Sempre in Italia il 65% dei rispondenti a un sondaggio europeo di Ipsos ritiene che “ci siano troppi immigrati”. Quanta correlazione c’è tra questi due dati? Di chi è la responsabilità di questa divaricazione enorme tra dato reale e percepito? La comunicazione politica può continuare a calpestare regole elementari di etica pur di portare i candidati a vincere le elezioni? (risposta all’ultima domanda: io penso di no).

3. L’85% degli italiani pensa che la situazione economica del proprio paese sia cattiva.

L’82% ritiene che il nostro paese stia procedendo in una direzione di marcia ‘sbagliata’. I dati non sono molto migliori nel resto d’Europa. La crisi di fiducia da parte della popolazione nei confronti della politica, dei media, delle istituzioni, del futuro in generale è radicata, profonda, sistemica. Perdura da tempo e non accenna a placarsi. La situazione economica non migliora in misura sufficiente a immaginare un’inversione di tendenza. Il dibattito pubblico dei prossimi anni continuerà a essere duro, cupo, polarizzato. La responsabilità di tutti gli attori della comunicazione (media, politica, cittadini) è dunque massima e lo sarà anche nei prossimi anni.

Sarebbe sbagliato oggi pensare che ci siano attori del dibattito pubblico che possano sentirsi meno responsabili di altri. Politici e media sono giocatori e al tempo stesso arbitri di quell’enorme, complicatissima partita chiamata ‘costruzione dell’opinione pubblica’ e dell’ancora più grande partita chiamata democrazia.

Sarebbe però sbagliato anche pensare che non esista un ruolo e una responsabilità individuale come cittadini e utenti: la verifica delle fonti è anche “nostra” responsabilità. Gli effetti di ciò che facciamo online sono, nel bene e nel male, più grandi rispetto a ciò che individualmente si poteva fare nell’era pre-digitale. Il 14% degli utenti americani ha dichiarato di aver volontariamente condiviso una notizia falsa. Questo comportamento non è meno deleterio rispetto alla propagazione di una bufala da parte di una fonte parziale o rispetto alla mancata verifica di parti di propaganda politica da parte dei media.

Nelle slide che trovate più in basso suggerisco quattro percorsi di lavoro:

1) Codificare i processi di democrazia interna nei partiti.

In particolare i meccanismi di consultazione degli iscritti. Trovare regole oggettive e certificate e offrire output veri (dunque non limitarsi alla ‘retorica dell’ascolto’, ma trasformare il pensiero collettivo in azione altrettanto collettiva) potrebbe aiutare la politica a recuperare fiducia, potrebbe dare un senso alla mobilitazione democratica dei cittadini, potrebbe ridurre la distanza tra reale e percepito, tra Palazzo e periferia, tra individui e comunità.

2) Ripensare l’informazione politica: fine dei contenitori generalisti in cui tutti parlano con tutti di tutto.

I talk-show moderni saranno anche economici per le emittenti che li mandano in onda, ma non aiutano a comprendere, non mettono i cittadini nelle condizioni di approfondire, non aiutano i politici a essere più credibili, non fanno crescere la fiducia nell’informazione. La competenza è sempre più una questione “verticale”, specialistica, di nicchia. Per i tuttologi sono tempi duri, ancora più duri da quando i social media offrono la possibilità di attingere a pareri davvero qualificati senza barriere troppo spesse all’accesso ai saperi.

3) Portare il fact-checking anche nei telegiornali, nei quotidiani, in qualsiasi luogo di accesso alle informazioni da parte dei cittadini.

Per il momento la verifica dell’attendibilità di ciò che dice un politico è solitamente confinata a due dimensioni: quella digitale e quella elettorale. Si fa fact-checking quasi solo su Internet e quasi solo in campagna elettorale, in sintesi. Questo impedisce la possibilità di verificare quotidianamente il livello di sincerità dei politici a fette significative di pubblico. Chissà se facendo fact-checking di tutto, ovunque, dai telegiornali ai quotidiani, non si riesca a recuperare un po’ di fiducia nei media e anche della politica la quale, messa sistematicamente con le spalle al muro, farebbe molta più fatica a giocare (sporco) coi dati reali e con quelli percepiti.

4) Rendere la cura del dialogo digitale una regola ufficiale e universale.

Le conversazioni online senza nessun facilitatore o moderatore, senza nessuno che dà attenzione a ciò che accade, senza nessun tipo di valorizzazione dei commenti positivi o di delegittimazione di comportamenti offensivi e distruttivi sono destinate inevitabilmente a trasformarsi in uno sfogatoio che aumenta la polarizzazione e la sfiducia. Una ricerca del Pew Research Center restituisce dati inequivocabili: il 59% degli utenti intervistati si sente più stressato dopo aver concluso una conversazione politica sui social media. Allo stesso tempo sarebbe sbagliato buttare il bambino con l’acqua sporca: l’84% dei rispondenti trova i social media utili ad approfondire i temi politici che interessano di più. Un community manager per ogni luogo certificato di discussione politica e giornalistica potrebbe dare una enorme mano a fare ecologia dell’informazione.

Quattro riflessioni sulla comunicazione contemporanea from Proforma

CONDIVIDI: